La musica rituale del Vietnam

Viaggiare per 20 giorni in Vietnam è stato un grande privilegio. Visitare, esplorare e conoscere un paese nuovo è sempre un’esperienza entusiasmante, soprattutto quando lo sguardo è aperto e curioso. Per me, viaggiare significa anche ascoltare. Non solo osservare come le persone strutturano l’esistenza, ma scoprire come usano il suono nel quotidiano, nei rituali e nei momenti significativi della vita.

In Vietnam, il suono ha un significato che va ben oltre la dimensione estetica: è un linguaggio simbolico e spirituale, un ponte tra il visibile e l’invisibile. È usato nei rituali per comunicare con le energie superiori, onorare gli antenati e mantenere l’equilibrio cosmico. La tradizione musicale vietnamita, incredibilmente ricca e stratificata, include la musica di corte (nhã nhạc), i generi poetico-musicali e le forme teatrali popolari. Ma è nella musica rituale che si manifesta con maggiore evidenza il rapporto tra suono, cosmologia e sacralità.

Come suonoterapeuta, sono stato particolarmente attratto da quei suoni e strumenti che, nelle pratiche culturali vietnamite, vengono utilizzati per purificare gli spazi, richiamare entità, facilitare la meditazione e il contatto con l’altrove. Ho così scoperto che in vietnam la concezione del suono si radica in un sincretismo profondo, che fonde buddismo, confucianesimo, taoismo, animismo e culto degli antenati.

Due principi cosmologici sono fondamentali per comprendere questo rapporto: l’âm dương (quello che noi conosciamo come yin-yang), che interpreta ogni vibrazione come frutto dell’interazione tra forze opposte e complementari; e il ngũ hành (i cinque elementi), che associa a ogni suono un’energia specifica. Il metallo, ad esempio, si manifesta nei suoni cristallini e penetranti di gong e campane: strumenti che, ben lungi dall’essere neutri, sono investiti di una forte carica simbolica .

I gong, chiamati chiêng, sono ampiamente utilizzati nei rituali animisti e religiosi. Presso i gruppi etnici delle Highlands centrali (come i Ba Na, Gia Rai, E De), questi strumenti sono considerati esseri viventi dotati di spirito. Ogni gong ha una voce unica e custodisce una potenza ancestrale: non sorprende che vengano tramandati come eredità sacre. In certe comunità, la loro presenza è indispensabile per le cerimonie fondamentali come nei i riti di passaggio. Suonarli non è solo un atto musicale: è un dialogo profondo tra la comunità e le entità invisibili.

Altrettanto centrali sono le chuông Đồng, le campane di bronzo usate nei templi buddhisti. Si dice che il loro suono attraversi i tre mondi – cielo, terra, inferi – e possa risvegliare la consapevolezza, dissolvere l’ignoranza, portare compassione. La campana, nel buddhismo Mahāyāna, è simbolo di illuminazione: ogni suo rintocco è una chiamata all’attenzione, un invito alla presenza.

Nella tradizione confuciana, invece, la musica rituale ha un valore etico e cosmologico. Durante la dinastia Nguyễn, la musica di corte (nhã nhạc) era regolata con estrema precisione: ogni strumento, ogni nota, ogni gesto aveva una funzione nel rappresentare l’ordine armonico dell’universo. Gli strumenti erano classificati secondo gli otto materiali e associati ai cinque elementi, contribuendo così a ristabilire simbolicamente l’equilibrio cosmico durante i riti pubblici e le cerimonie ancestrali.

Il taoismo vietnamita, spesso intrecciato a pratiche popolari, dà origine a rituali sincretici in cui il suono è impiegato per guidare spiriti, guarire malattie, ristabilire armonie perdute. Nei riti Then, praticati dalle comunità Tày e Nùng del nord, lo sciamano canta accompagnandosi con il liuto tính, suona sonagli e impiega una bacchetta yin-yang per tracciare confini tra i mondi. In queste cerimonie, il canto è un vero viaggio spirituale: narra il percorso dell’anima tra i regni cosmici, accompagnandola nel suo cammino.

Un esempio particolarmente emblematico è il culto delle Madri Divine (Đạo Mẫu). In queste cerimonie, la medium viene posseduta da una divinità e danza al ritmo incalzante della musica chầu văn. Il repertorio musicale è estremamente codificato: ogni divinità ha la propria melodia, il proprio tempo, il proprio strumento dominante. È la musica stessa a “costruire” la presenza divina, a darle corpo e voce.

La musica rituale è anche strumento di guarigione, conforto e coesione comunitaria. Dai funerali ai riti propiziatori, ogni momento della vita può essere accompagnato da suoni che orientano l’energia, facilitano il distacco, o semplicemente rendono visibile l’invisibile.

Non è una peculiarità solo vietnamita. In tutto il Sud-Est asiatico, dalla Cambogia al Laos, dalla Thailandia a Bali, le pratiche sonore rituali condividono elementi comuni: il gong come tramite tra i mondi, il tamburo come voce della terra, il canto come mappa del sacro, il suono insomma come linguaggio universale capace di aprire mondi.

Alla fine di questo viaggio, mi porto dentro un ascolto più profondo. Perché tra le tante cose che il Vietnam mi ha insegnato c’è anche la conferma che il suono non serve solo a riempire il silenzio ma a creare connessioni: con gli altri, con l’invisibile, con sé stessi.

Viaggio nei suoni dell’India. All’ascolto del paesaggio sonoro indiano

Questo post è il primo di una serie creati per accompagnare il lettore curioso in un viaggio uditivo attraverso l’incredibile diversità sonora di questo paese straordinario.

L’India è un luogo dove ogni suono racconta una storia, ogni nota rimanda a una tradizione o a una innovazione, e ogni silenzio cela un mistero.

Una importante premessa: quando un viaggiatore esplora i luoghi, tende a immortalare frammenti di ciò che percepisce usando fondamentalmente il canale visivo. Centinaia, migliaia di foto scattate con il cellulare o con macchine fotografiche.

I suoni, elementi fondamentali nel determinare il paesaggio e l’identità dei luoghi, generalmente non diventano il focus dell’attenzione del turista o del viaggiatore ma rimangono sullo sfondo, come ombre che danzano sul muro al tramonto, presenti ma spesso trascurati.

Da anni ho scelto di dare più importanza alla memoria dei suoni rispetto alle immagini; quando gli altri scattano foto su foto, io estraggo il mio registratore audio (o il cellulare quando non ho con me il mitico zoom recorder H6) e registro i suoni.

Scatto pochissime foto, utili solo a ricordare il luogo nel quale questi suoni sono stati ascoltati e catturati.

Quante volte mi sono trovato a registrare situazioni sonore interessanti, dove l’aspetto visivo non era quello principale (ad esempio, devoti che cantano mantra o suonano strumenti) e intorno a me tutti scattavano foto (e qualcuno video) ed ero l’unico a registrare i suoni. Segno dei tempi: io la chiamo, con leggera ironia, la dittatura del visivo. Potrei anche dire: l’ascolto, il senso dimenticato.

Per me, suonatore e insegnante di gong e di suonoterapia, prestare orecchio alle voci del mondo anziché limitarmi a osservarlo è una necessità fondamentale, un requisito essenziale, un approccio ineludibile.

Per un sound healer, ascoltare va oltre la percezione uditiva, diventando un modo per connettersi con l’essenza di un luogo attraverso le sue vibrazioni. In un mondo focalizzato sull’immagine e sulla frenesia delle fotografie, registrare i suoni diventa un atto di ribellione contro il superficiale, invitando a un’immersione totale nell’esperienza presente. Tale pratica permette di catturare non solo le melodie esplicite, ma anche i sottili sussurri e gli echi lontani che definiscono l’unicità di un ambiente.

Ecco così un breve resoconto di un viaggio in India, tra Delhi, Varanasi e Goa, una piccola fetta dello sterminato universo indiano ma già carico di sonorità vibranti, evocative e profondamente radicate, che tessono una trama sonora tanto variegata quanto l’essenza stessa del paese.

Foto di Roberta Bottari, straordinaria compagna d’avventure ed esplorazioni soniche e non solo